di Angelo Pizza, classe IID
Ho deciso di scrivere una breve storia, composta da più testi, sulla terza guerra punica. I personaggi citati sono tutti frutto dalla mia fantasia tranne uno, Scipione l’Africano. Ho scelto la terza guerra punica per un solo motivo: sono sempre stato appassionato di Roma e della sua gloria, del mare nostrum e di ciò che il Medioevo distrusse. Questo testo parla del viaggio che stanno compiendo i legionari per arrivare nei Paesi nordafricani e del loro stato d’animo al pensiero della guerra.
L'INIZIO DELLA FINE
Nel languido mar parlava ai suoi compagni, infiammando
loro il cuore di spirto guerriero, che avrebbe fatto la felicità di Roma, che
avrebbe punito i Puni.
Ecco cosa disse: “Cari compagni siam qui su questa nave e pensiamo ai sapori della nostra terra, a colori del grano dei nostri campi e soprattutto pensiamo all’amore che in patria ci aspetta, ma adesso l’amore accantonatelo e cacciate fuori quella rabbia che sguaina la
spada e fa il bagno nel sangue del nemico, su! Siate forti, e che la paura non metta piede su questa nave!”
Era lui, l’unico e irraggiungibile Quinto, colui che faceva tremare i leoni, colui che era amico della spada e nemico del vile arco, colui che regnava sul campo di battaglia. Il suo impavido sguardo penetrava nella mente dei suoi legionari, caricando il loro animo di un enorme fragore, di un fragore temerario e senza limiti. L’irto elmo d’imponenza lo accarezzava e l’argentea armatura di un infrangibile potere, che la nave pigliava per mano e la portava nei rossi mari, dove solo il coraggio vince.
A prua un piccolo uomo, dal naso aquilino e dal corpo tozzo, ma dall’animo fiero, che guardava verso il vuoto e mormorava tra sé e sé: “Fa oh Giove che Roma trionfi a suon di tromba e che la Via Sacra si riempia di gente, fa che figli e mogli riabbraccino padri e mariti, e sui loro volti un sorriso, contento e pieno di gioia”. Era Ottavio.
Dall’altro canto, a poppa, un possente uomo, barbuto e un po' malinconico, Quinto si avvicinò.
“Cosa c’ è che ti turba?”
“Generale, è la mia prima battaglia, è la prima volta che salgo su una nave, è la prima volta che lascio casa, è l’ultima volta che penso alla famiglia!”
“Senti Julio, ne ho fatte tante di battaglie, e anch’io la prima volta ero come te, piangevo, ma or ti posso dire di non temer nemico e di non ritrarre spada, fa che Roma possa vantarsi di un valoroso guerriero!”
“Generale, le sue parole valgon come oro, la sua saggezza sventola tra le nostre membra e la sua esule carica i legionari va a rinforzar.”
Quinto si tolse il mantello, lo ridusse in migliaia di pezzi e ne diede uno ad ogni legionario dicendo:” Che vi porti fortuna, questo purpureo mantello è di uno dei più grandi servitori di Roma, Scipione l’Africano, colui che diede la propria vita per la patria. Fate di esso un enorme tesoro e ricordatevi sempre che non è un mio dono, ma il suo.”
Ottavio scorse tra le leggere onde un’africana nave, e su di essa uomini bruti, senza virtute e senza canoscenza, che camminano in un’oscura selva e che mai luce vedono. Lo cor nobile non è loro.
Ecco cosa disse: “Cari compagni siam qui su questa nave e pensiamo ai sapori della nostra terra, a colori del grano dei nostri campi e soprattutto pensiamo all’amore che in patria ci aspetta, ma adesso l’amore accantonatelo e cacciate fuori quella rabbia che sguaina la
spada e fa il bagno nel sangue del nemico, su! Siate forti, e che la paura non metta piede su questa nave!”
Era lui, l’unico e irraggiungibile Quinto, colui che faceva tremare i leoni, colui che era amico della spada e nemico del vile arco, colui che regnava sul campo di battaglia. Il suo impavido sguardo penetrava nella mente dei suoi legionari, caricando il loro animo di un enorme fragore, di un fragore temerario e senza limiti. L’irto elmo d’imponenza lo accarezzava e l’argentea armatura di un infrangibile potere, che la nave pigliava per mano e la portava nei rossi mari, dove solo il coraggio vince.
A prua un piccolo uomo, dal naso aquilino e dal corpo tozzo, ma dall’animo fiero, che guardava verso il vuoto e mormorava tra sé e sé: “Fa oh Giove che Roma trionfi a suon di tromba e che la Via Sacra si riempia di gente, fa che figli e mogli riabbraccino padri e mariti, e sui loro volti un sorriso, contento e pieno di gioia”. Era Ottavio.
Dall’altro canto, a poppa, un possente uomo, barbuto e un po' malinconico, Quinto si avvicinò.
“Cosa c’ è che ti turba?”
“Generale, è la mia prima battaglia, è la prima volta che salgo su una nave, è la prima volta che lascio casa, è l’ultima volta che penso alla famiglia!”
“Senti Julio, ne ho fatte tante di battaglie, e anch’io la prima volta ero come te, piangevo, ma or ti posso dire di non temer nemico e di non ritrarre spada, fa che Roma possa vantarsi di un valoroso guerriero!”
“Generale, le sue parole valgon come oro, la sua saggezza sventola tra le nostre membra e la sua esule carica i legionari va a rinforzar.”
Quinto si tolse il mantello, lo ridusse in migliaia di pezzi e ne diede uno ad ogni legionario dicendo:” Che vi porti fortuna, questo purpureo mantello è di uno dei più grandi servitori di Roma, Scipione l’Africano, colui che diede la propria vita per la patria. Fate di esso un enorme tesoro e ricordatevi sempre che non è un mio dono, ma il suo.”
Ottavio scorse tra le leggere onde un’africana nave, e su di essa uomini bruti, senza virtute e senza canoscenza, che camminano in un’oscura selva e che mai luce vedono. Lo cor nobile non è loro.

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